Il dramma siciliano

Quei siciliani inorriditi per l’inserimento della nostra Regione in zona arancione mi fanno sorridere. Leggo commenti di gente che urla allo scandalo, che progetta rivoluzioni, che impreca contro Conte, totalmente ignara di chi siano le reali responsabilità del caso.

Sono stati utilizzati dei parametri scientifici per valutare le chiusure regionali, che non prevedono semplicemente il numero di casi ma la capacità del sistema sanitario di gestire i ricoveri. Un sistema sanitario che, in Sicilia, è inefficiente dalla notte dei tempi e che nessun governatore si è mai premurato di potenziare.

Il caro Presidente Musumeci dovrebbe spiegare, soprattutto a chi l’ha votato, quali misure ha predisposto per la Sicilia in merito all’aumento dei posti letto in terapia intensiva e sub-intensiva. Dovrebbe spiegare perchè, dei 123 milioni di euro che lo Stato aveva assegnato alla nostra Regione per la lotta al contagio, ne abbia spesi soltanto 50. E di conseguenza fare chiarezza sui 73 mancanti. Dovrebbe spiegare con quale faccia di merda, in una situazione d’emergenza, mentre i cittadini si ammalano o perdono il lavoro, si possa pensare di aumentare le pensioni e l’assegno di fine mandato dei deputati dell’Ars.

E’ facile frignare sui social, facendo breccia nelle menti psicolabili, in nome di una perenne campagna elettorale. Così com’è stato facile invitare i turisti in Sicilia per tutta l’estate, senza predisporre controlli più rigidi per fronteggiare un potenziale aumento di contagi. La verità è che la nostra isola, sede di antichi splendori, è stata depredata da piccoli uomini, narcisisti e incapaci, proiettati esclusivamente ad un tornaconto personale.

Caro Presidente, altro che #diventeràbellissima. Diventerà una merda, se già non lo è. Diventerà deserta, poichè l’abbandoneremo alla miseria che la sta consumando. Dopodichè potrà governare solo le capre, le uniche che possano darle credibilità.

#diventeràbruttissima #sicilia #covid #covid19 #lockdown #pandemia

Papà

Mio padre è andato via un pomeriggio di maggio, senza far rumore né disturbare, come sempre. Sono trascorsi poco più di due mesi. Due mesi. Per la maggior parte di noi, si tratta di un periodo talmente breve da ritenerlo insignificante. Ma, per chi lotta contro un dolore lacerante, ogni minuto sembra un’eternità. Quel giorno appare remoto, se rapportato alla fatica di arrivare fino ad oggi. Eppure, al contempo, è così vicino da riuscire ancora a ricordarne gli odori, a sentire le lacrime scendere sulle gote e quell’orribile sensazione opprimente nel petto. Da allora, tra queste quattro mura, che un tempo assorbivano le sue fragorose risate, solo silenzio e freddo.

Pensiamo di avere a disposizione un tempo infinito, di essere onniscienti, di poter controllare tutto. Rimandiamo continuamente qualsiasi cosa, ignorando la possibilità reale e tangibile di eventuali catastrofi. Catastrofi che, quando ci investono con così tanta violenza e imprevedibilità, ci colgono impreparati, inermi. Per un attimo ci illudiamo di poter premere Stop e Rewind, di ricominciare come se si trattasse di un film, di avere l’occasione per rimediare agli errori e liberarci dai rimpianti. Ma, ahimè, non accade. Rimane solo l’insopportabile delusione e un sapore nauseabondo in bocca.

Ed io rimpianti ne ho tanti. Dalla nostra ultima conversazione, frettolosa e un po’ sgarbata, a tutte quelle volte che non ho avuto il coraggio di dimostrare cosa pensassi e provassi nei suoi confronti, troppo orgogliosa e testarda per poter manifestare i miei sentimenti. L’amore ma soprattutto l’immensa stima che nutrivo. Non tutti possono godere della fortuna di essere cresciuti da una persona così autentica, generosa ed altruista. Un esempio, non solo per chi lo viveva nel quotidiano ma per chiunque lo avesse incrociato nel corso della sua vita. E, alla fine, è questo che conta davvero no? Ciò che siamo riusciti a lasciare agli altri. Lui, in tal caso, ha già vinto prima ancora che arrivasse al traguardo.

Ma il rimpianto che mai, e poi mai, e poi mai, potrò perdonarmi è il non esserci stata quel pomeriggio. In quella strada isolata, dove nessuno avrebbe potuto soccorrerlo in tempo. Ero sempre stata terrorizzata all’idea che potesse accadergli qualcosa mentre si trovava lì, nella nostra campagna, motivo per il quale lo accompagnavo sempre. Anche quando non ne avevo per niente voglia. Sapevo quanto lo rendesse felice annaffiare le piante e raccogliere le nespole. Non so cosa fosse, se si trattava di un sesto senso e se ci sia un’altra motivazione trascendentale dietro l’accaduto, so soltanto che il mio peggior incubo è diventato realtà. Uno scherzo di cattivo gusto del destino. Avrei tanto voluto essere in quella macchina, pronta a salvarlo al minimo accenno di fastidio o malessere, e non m’importa se avrei rischiato anch’io la vita, gliel’avrei regalata se avessi potuto. Ma, anche se non fossi riuscita a far nulla, quantomeno non sarebbe morto da solo. Avrebbe avuto me accanto, fino alla fine. A prescindere dal mio epilogo. Invece l’ultimo ricordo che ho di lui è la foto scattata da un giornale locale che riprende il suo corpo avvolto da un lenzuolo, accanto alla nostra auto distrutta. La mia mente non l’ha ancora realizzato. Per me, quello non era lui. Perché, se pensassi realmente, concretamente, che la sua fine è immortalata per sempre in quell’immagine, potrei morire ora stesso.

Manca. Manca terribilmente. Tanto che il tempo si è fermato. Sono rimasta incastrata al 23 maggio 2019. È da quel giorno che sento un nodo in gola e il cuore stanco e sofferente. E forse, in qualche modo, sono morta anch’io.

Ciao zio

Non andavo ad un funerale da molto tempo. E non per mancanza di interesse e strafottenza, come molti probabilmente avranno pensato nel corso degli anni.
Ho paura del capolinea. Mio, degli altri, poco differisce. La morte è un’esperienza che abbraccia l’umanità, senza sconti a nessuno. Giornate come questa mi ricordano che il nostro tempo è limitato, che non importa quanto possiamo aver paura, scalciare e fuggire, prima o poi ci raggiungerà. Se mi fermo a pensarci mi pervade il terrore. Il momento peggiore è la notte, il buio si accompagna ai pensieri più nefasti. Qualcuno mi suggerirebbe di accendere la luce ma la mia ragazza non sarebbe molto d’accordo.
Mio zio era una bella persona. E non è il legame di sangue a suggerirlo. Chi mi conosce sa quanta poca importanza abbia il DNA per me. Era sorridente, gentile, mai invadente. Mi rammarica aver perso i contatti con lui negli ultimi anni, avrei voluto essere più presente e conoscerlo meglio. Pensiamo di avere a disposizione tutto il tempo del mondo, mettiamo davanti lo studio, il lavoro, i giorni passano e si trasformano in decenni senza rendercene conto. Poi rimaniamo immobili come ebeti nell’apprendere notizie del genere, inizia il turbinio di pensieri e sensi di colpa.
Ho visto mio padre piangere per la prima volta. Come sempre in maniera composta, in disparte, dove nessuno avrebbe potuto accorgersene. Non ho avuto il coraggio di avvicinarmi, non credo di poter capire la sensazione che si prova quando si perde un fratello e non mi piace abbandonarmi a frasi di circostanza. Ho sempre preferito il silenzio e il sincero dolore. Non c’era niente da dire. L’unico modo per dimostrargli la mia vicinanza è stargli accanto con gentilezza.
La nota positiva di una giornata da dimenticare è stata rivedere i miei cugini, con i quali ho allentato i rapporti da quando vivo in un’altra città. La figlia del defunto è diventata una donna con i contro coglioni, era lei ad incoraggiare tutti, la guardavo con ammirazione come forse ho fatto poche volte nella vita. Ci siamo scambiate un lungo abbraccio e ho sentito una forza che mi ha commosso, mi sembrava di essere protetta da una mamma. Io, al suo posto, sarei crollata su me stessa. Tremo al solo pensiero.
Voglio chiudere gli occhi e lasciarmi tutto questo alle spalle.

Riscrivere la storia

Molti scrittori, o aspiranti tali, non amano rileggersi. Non so se sia una questione stilistica o semplicemente la mancata volontà di riesumare frammenti di passato. Eppure, cercare tra antiche righe la nostra storia, rimane l’unica via per toccare in modo tangibile il cambiamento. Con un film è facile farlo, è sufficiente premere rewind, poi nuovamente play, e tracciare l’evoluzione dei personaggi, da spettatori. Ma quando sei dentro la vita, il discorso cambia. Non siamo mai pienamente coscienti di ciò che eravamo, siamo e vorremmo essere, e allora queste tre dimensioni sembrano fondersi l’un l’altra generando soltanto caos.
Qualcuno di noi decide di riordinare il proprio esserci vestendo pagine nude.
Il momento più importante è trovare il coraggio di tornare indietro. È anche il più imbarazzante, soprattutto quando ti accorgi che scrivevi in modo acerbo, banale, mai del tutto convincente. È il più doloroso, perché ci da la possibilità di affondare la testa dentro antiche ferite, di rivederci, di rivalutare tutto sotto una luce completamente diversa.

Quando aprii questo blog, ero soltanto una ragazzina egoista, insicura e con parecchie storie disastrose alle spalle. Non è trascorso un secolo da allora, poco meno di due anni, ma il riferimento temporale è piuttosto superfluo quando si discorre di cambiamenti. Si può cambiare anche in un mese, una settimana, un giorno, qualora fossimo mossi da motivazioni valide o eventi con un certo grado di incisività. Al contrario, c’è chi rimane fossilizzato nella propria inflessibilità per tutta la vita, restio a qualunque forma di mutamento, che abbia sedici anni o quaranta.
Dedicai i miei primi post ad una ragazza della quale mi ero infatuata, commettendo un altro errore tipico di chi ama scrivere:ornare i protagonisti delle proprie storie, rendendo ogni dettaglio insignificante qualcosa di inedito, speciale, mai visto in precedenza.
Qualcuno di voi avrà pensato che fosse una di quelle storie d’amore intrise di drammi e sentimenti coinvolgenti, che lei fosse bella da togliere il fiato e che mai avrei potuto amare un’altra creatura nel medesimo modo.

La verità è molto diversa da questo quadretto delizioso. E ve la svelo adesso, che non sono cieca né dormiente.

La verità è che nessuno mi aveva ancora svegliato dal torpore, che non mi ero mai innamorata davvero e qualunque emozione era idealizzata, che la noia e l’apatia mi divoravano a tal punto che persino un’eccentrica presuntuosa come lei risultava vagamente interessante. Lei voleva una bambola gonfiabile deficiente da manipolare a sua immagine e somiglianza, che la venerasse come una dea e le donasse i propri sentimenti senza risparmiarsi. Guai avanzare una protesta o manifestare un malessere, pena la meschinità gratuita e l’umiliazione.
Io ero affamata di attenzioni e sensazioni forti, con un’autostima vacillante e le idee tutt’altro che chiare. Ero un contenitore bucato mai sazio, volevo essere riempita e lei era perfetta per questo, la ragazza del tutto e subito, che inventava promesse e parole d’amore ad hoc per colmare quei vuoti ancor più spaventosi dei miei. La coppia perfetta, apparentemente.
Agli occhi altrui sembrava la vittima maltrattata dal mondo, ignorata dai genitori, abbandonata brutalmente dalle ex, alla ricerca di protezione. Sembrava naturale guardarla negli occhi e dirle “io ti salverò”, quegli occhioni tristi da cerbiatto morto di fame. Col senno di poi, si scoprirà che è il solito copione che rifila alle nuove vittime della sua perversione mentale.

Mi ha lasciato soltanto rimpianti nella vita. Il primo è aver perso un mucchio di tempo. Oltre che salute mentale, lacrime, energie e quant’altro. Ho sfiorato il fallimento della mia seduta di laurea, durante la quale mi salvai in calcio d’angolo soltanto grazie alle mie discrete abilità oratorie; non avevo aperto la tesi, nozioni frammentate e prive di un filo logico fluttuavano nella mia mente e Dio solo sa come sia riuscita a cavarmela. L’esaurimento nervoso era tale che non ebbi nemmeno la forza di organizzare un festeggiamento degno di questo nome:quel giorno la signorina ha ben pensato di violentarmi la mente con storielle dalla dubbia veridicità, con il chiaro scopo di ricoprire di malcontento e disgusto il ricordo del mio traguardo. Un traguardo sognato, sofferto, e mi permetto anche di dire meritato. Eppure in quel momento era tutto talmente buio da non avere importanza. Credo che questo non glielo perdonerò mai. Da qui, scaturisce il successivo rimpianto:averle concesso il mio perdono quando, esattamente un anno fa, me lo chiese. Non lo meritava. Perdonare, in fondo, significa reagire con serenità alla vista o al pensiero di una persona che ci ha feriti profondamente. Significa avere la forza di mettere qualunque torto e umiliazione da parte. Non provo odio, o rabbia, ma continuo a pensare che sia una persona disgustosa. Una di quelle che non augureresti neanche al peggior nemico. E che merita di convivere con le sue colpe, perlomeno fin quando non ne abbia piena coscienza e provi sincero pentimento. Non credo sia il suo caso, cercare il perdono dietro lo schermo di un telefono la rende anche codarda. Uno squallido tentativo di alleggerirsi di tutta la merda che ha seminato qua e là.

A questo punto del post sarebbe legittimo chiedersi:perché scrivere tutto questo proprio stasera, la notte di Natale?

La risposta è di una semplicità disarmante. Siamo nel periodo dei resoconti, l’anno sta per giungere al termine e irrimediabilmente si pensa a ciò che ci siamo lasciati indietro e cosa sia cambiato. Ed è importante scriverlo, renderlo chiaro non soltanto agli altri ma soprattutto a sé stessi. Stasera, dopo tanto tempo, in un momento di particolare ispirazione, ho deciso di rileggere il blog. Dall’inizio alla fine. Ho sempre saputo di aver chiuso col passato ma, durante le ore trascorse dinanzi a questo schermo, ho avuto una conferma illuminante. Ci si rende conto realmente di aver lasciato scivolare tutto alle spalle quando, rileggendo le parole con le quali abbiamo vestito qualcuno del nostro passato, si prova una sensazione di nausea intensa. E il desiderio irrefrenabile di riscrivere la storia, con occhi nuovi.
Io voglio ricominciare da qui. Da una relazione che mi rende felice da quasi un anno. Dall’accettazione della mia sessualità e dal coraggio che dovrò accumulare per dirlo alla mia famiglia. Dai progetti già in cantiere ai sogni non ancora consci.

Evoluzioni saffiche

Cosa pensate che sia l’amore tra due donne?
Il desiderio di qualcosa di diverso? Una trasgressione? Una scorciatoia? Un disturbo post traumatico da storia etero finita male? La scelta obbligata delle chiattone brufolose che gli uomini non sfiorerebbero nemmeno per prelevare denaro in banca?
Beh si, forse sì. A volte.
E poi ci sono quelle come me. Che non volevano qualcosa di diverso, che avrebbero preferito amare alla luce del sole, senza attirare l’attenzione di peni in erezione alla sol visione di due mani femminili intrecciate; che non vorrebbero dire alla propria madre che alla prossima cena di Natale la sedia sarà occupata da una patata; e che vorrebbero evitare gli sguardi disgustati delle vicine di casa settantenni, accompagnati da gesta cattoliche incrociate.
Inoltre, quelle come me, per (s)fortuna, hanno ricevuto attenzioni maschili anche quando non avrebbero voluto; riescono ancora a guardarsi allo specchio senza fuggire in preda a coliche intestinali; non hanno subito particolari traumi provocati dagli uomini, semmai esattamente l’opposto, eppure… eccole ancora qui a preferire il gentil sesso.
Perché?
Questo, la scienza, non sa spiegarlo. Qualche seguace di Freud vi direbbe che siamo state brutalmente segnate da un’infanzia triste e dolorosa, che nostra madre era orribile, anaffettiva ed egoista e che noi colmiamo tali disagi in un surrogato di quella donna che ci ha dato alla luce. Ma, anche tali affermazioni, non trovano un posto nel mondo.
Alla fine, nemmeno io so spiegare perché preferisco la pianura pubica, i meloni (purchè poco sviluppati, i miei sono più che sufficienti), l’assenza di peli rigogliosi (se sono fortunata), e quelle dolci vocine che, in momenti d’ira, tendono al petulante, però vi do una notizia: è così. Sono io. E temo che le pseudocure psichiatriche non possano farci granché. Preferisco le donne da quando ne ho memoria, adesso che ne ho preso coscienza. Certo che ho creduto di amare gli uomini, un tempo, ed è stata dura ammettere che si trattasse solo di un’illusione, di un modo per compiacere chi mi stava intorno. Loro, ovviamente, non lo sapranno mai, e dubito gliene importasse. La più grande menzogna la raccontavo a me stessa, sforzandomi di essere qualcuno che nemmeno esisteva. E fa così male, a volte, dover convincere gli altri della tua esistenza. Più ti impegni nel farlo e più ti senti invisibile, in procinto di svanire da un momento all’altro.
Qualcuna di noi, pur di sfuggire agli sguardi delusi, ai gossip dei compagni di scuola, alle provocazioni di uomini depredati della loro virilità, è disposta ad annullarsi completamente, ad indossare maschere, ogni giorno, mentre dentro lentamente muore. Accoglie carezze non desiderate per riempire vuoti spaventosi, si rifugia tra lenzuola che sanno di ignoto. Nel frattempo, quella voragine, continua ad espandersi, il cuore si raffredda, manca il respiro. C’è chi rimane in trappola, destinata a vivere una vita scelta dagli altri. Sarà infelice, colpevole, mentirà. È tipico delle famiglie con mentalità ottocentesche, che preferirebbero vedere i figli lobotomizzati piuttosto che sopportare l’umiliazione di etichettarli come omosessuali. È incredibile il terrore che, questa parola, sia in grado di produrre. La peste provocherebbe effetti di minore portata.
E poi ci sono loro, le coraggiose. Quelle che ti tengono per mano nonostante gli sguardi indiscreti, quelle che ti fanno sentire fottutamente normale, quelle che tornano a casa e non nascondono la tua esistenza.
La mia Lei è una di queste. Se la vedeste non sembrerebbe, è piccoletta, con un abbraccio potrei soffocarla, sorride sempre e riesce a trovare del buono in chiunque, anche quando è nascosto in profondità ed impossibile da notare ad occhio nudo. Se il mondo avesse i suoi occhi, sarebbe un posto migliore. Ma la verità è che il mondo fa paura ed io a volte vorrei che non lo guardasse.
Prima di lei era tutto confuso. E complicato. Non avevo mai pensato seriamente ad un futuro con una donna. Sognavo di sbattere la testa violentemente su un muro e innamorarmi follemente di un uomo mandato dal destino. La mia vita era proprio lì, davanti ai miei occhi:mi vedevo già sposata, madre, nonna e sepolta. Sì, prima o poi sarebbe successo e avrei abbandonato quel mondo popolato da pazze, bipolari, curiose, ero giovane e avevo tempo. Vivere una relazione con tali presupposti non era esattamente il sogno d’amore di una donna.
Il tempo non mi ha affatto regalato un uomo, solo consapevolezza. Non ho più timore di avere una ragazza al mio fianco, ma questo credo di doverlo principalmente a Lei. Rende tutto talmente normale che non saprei nemmeno cosa potrebbe scorgere di diverso la gente in noi.
Stiamo insieme da sei mesi e mai, nemmeno per un secondo, ho avuto la sensazione di essere fuori posto, o desiderato voler essere altrove. Sfiderei chiunque a riconoscere un barlume di diversità nel nostro rapporto, confrontandolo con un legame eterosessuale. Anche noi abbiamo due mani e due piedi, ci rubiamo le coperte durante i pisolini, ci mandiamo amorevolmente a cagare se necessario, fingiamo che le scarpe appena comprate dall’altra non ci facciano venire voglia di spararci in testa, abbiamo l’alito al sapore di ratto la mattina, e (udite udite) a quanto pare adesso possiamo anche sposarci. Che eresia vero? Effettivamente priviamo l’umanità di qualcosa di molto prezioso decidendo di stare insieme. Due patate in meno in circolazione, sai che perdita. Sapete cosa mi diverte molto? Accendere la tv e scoprire che politici corrotti che vanno a mignotte e cittadini dalla dubbia moralità scendono in piazza perché “inorriditi dai diritti concessi agli omosessuali”, inneggiando la famiglia tradizionale.
Non abbiamo mai chiesto privilegi. E nemmeno ne vorrei. Io voglio, pretendo, una vita normale. Un giorno mi piacerebbe dire a mia madre che sono felice. Con una persona che mi fa ridere tanto, che mi stringe quando sto male e che mi ha fatto immaginare il mare osservando da una finestra in alta montagna. Non dovrei nemmeno sottolinearlo che si tratti di una donna, non dovrebbe avere alcuna importanza. Ma per lei, adesso, in un mondo come questo, ne ha. E, probabilmente, quando troverò il coraggio di ferirla, la perderò. Forse mi chiederà di cambiare. Ma io, caro mondo, non posso cambiare. Cambiare significherebbe darla vinta a te, confermare una diversità che esiste solo nella tua testa. Diverso è tutto ciò non contemplato dalle leggi dell’uomo, leggi ben lontane dal concetto intrinseco di Natura. Nessuna malattia quindi, nessun trauma infantile, né mia madre ha urtato il pancione quando mi conteneva. È una semplice preferenza, un po’ come quegli uomini che preferiscono le bionde tettone alle more con taglie concave.
L’amore tra due donne è questo, due stronze isteriche che scelgono di rompersi la patata a vicenda piuttosto che le palle agli uomini.

Rivelazioni

Io non sapevo cosa significasse amare qualcuno.
M’infatuavo, idealizzavo, era tutto talmente frenetico ed eccessivo da rendermi confusa.
Come se, quegli estremi, dovessero riempire un vuoto. E non mi saziassero mai a sufficienza.
Non capivo cosa succedesse dentro il petto. L’origine di quella voragine. Sapevo soltanto che c’era da tutta la vita. Ovunque andassi. Qualunque cosa facessi. Con chiunque fossi.
Qualcuno riusciva a metterla a riposo, per brevi, brevissimi istanti. Puntualmente si destava e, con essa, quel desiderio irrefrenabile di riempire.
Lo scorso inverno fu nero come la pece. Alla fine della stagione, non era rimasto più nulla. Solo tanta cenere spazzata dal vento. Avrei potuto farlo ancora una volta, dare ascolto a quelle vocine nella testa affamate di emozioni fugaci, lasciarmi ingannare dalle vacue promesse della prima avvenente fanciulla, sentirmi amata, anche solo per un minuto.
Eppure sono rimasta immobile. Una ragazza in treno mi disse che ero bella. E qualcun’altra, tra sguardi languidi e carezze, mi invitava a scaldarle le lenzuola. Sarebbe stato talmente facile trovare un po’ di calore, tra le braccia di chiunque. Anche di una sconosciuta senza nome. Probabilmente avrei pianto. Il mondo si sarebbe fermato ed io lo avrei guardato attraverso un vetro, depersonalizzandomi.
Ho indagato a lungo per trovare le risposte tanto agognate. O meglio, per pormi le domande giuste.
Quel vuoto non voleva essere ignorato, celato, soffocato, riempito. Dovevo affondare le mani dentro il petto e tirarlo fuori, dargli un volto, plasmarlo. Lasciarlo guardare dal mondo senza provare vergogna.
Ho scoperto una rabbia che mi accompagnava da quando ne ho memoria. Dalle mancate attenzioni di una madre forse troppo distratta, che mi amava in un modo tutto suo, mai sufficiente per chi, come me, trema per una carezza. I rimproveri, le aspettative, le frustrazioni di una vita che forse non voleva, erano macigni sulle spalle. A volte semplicemente non c’era. Mi voltavo e avevo le spalle scoperte, faceva freddo. Stavamo sperimentando quello che gli psicologi definiscono “attaccamento disorganizzato”, confondendomi tra le sue oscillazioni di presenze e assenze ciclicamente costanti. Era questa la mia normalità. Quegli stessi estremi che contraddistinguevano i miei amori malati facevano parte della prima donna della mia vita. Ed io, in fin dei conti, cercavo lei nell’ambivalenza di donne incostanti, capaci di alternare il tutto e il niente repentinamente, senza nemmeno darmi il tempo di capire. Chiunque sarebbe fuggito, eppure quel dolore era talmente familiare da aggrapparmici con forza. Tornavo puntualmente all’origine, conducendomi all’autodistruzione.
Ed è così strano adesso scrivere tutto questo. Rileggermi. Guardarmi. Mi fa rendere conto che non mi ero mai vista davvero, tanta era la frenesia di nascondere quell’ombra al seguito.
Liberandomi del vuoto, dalla necessità di colmare, la solitudine aveva un sapore nuovo. Non avevo bisogno di nessuno, né di sentirmi amata. Ricostruivo l’autostima con le mie mani, e non dovevo ringraziare altri che me stessa. Mi sono guardata allo specchio e, per la prima volta, ho pensato di meritare qualcuno di “reale” al mio fianco. Non m’importava più dell’emozione di un momento. O di quelle parole lanciate al vento, volte a farmi sentire attraente, desiderabile, speciale, finalizzate ad un piacere circoscritto nel qui ed ora, per poi rivelarsi prive di consistenza.
E, se non avessi scoperto tutto questo, se non avessi trovato il coraggio di aprire gli occhi, annegare, accogliere il peggio di me, e mutarlo, non mi sarei innamorata perdutamente, completamente e consapevolmente di una persona che, per la prima volta, mi fa sentire “normale”. Senza drammi, ripicche, violenze psicologiche. E mi accorgo che tutto questo mi piace. E mi piace la persona che sono quando sto con lei. Non devo fingere, né compiacerla, né provare quel terrore costante di essere abbandonata per un momento di debolezza. Mi ha visto nuda, fragile, le ho pianto sulla mano sussurrandole di avere paura, e lei era lì, che mi aiutava a ricomporre i pezzi.
Quando ci siamo conosciute, ci aprivamo con così tante riserve che, agli occhi degli altri, sembravamo quasi immobili. Ogni piccolo passo era un traguardo, ogni parola accuratamente ponderata.
L’ho conosciuta quando non ci credevo più.
Quando la fame di emozioni era un lontano ricordo, e non avevo fretta. Lei lo sapeva. Che avrei potuto lasciarla morire di freddo, forse per tanto tempo, forse per sempre. L’ho invitata a scappare in tutti i modi possibili, aprendo porte e finestre ovunque, lasciandomi percepire immeritevole. Eppure, un giorno, ho aperto gli occhi e lei era davanti a me. Si era avvicinata con una tale delicatezza che nemmeno me ne resi conto. Non ero abituata alla gentilezza, al tocco esitato, agli sguardi imbarazzati.
Una notte mi chiese cosa avessi visto in lei.
Se potesse guardarsi attraverso i miei occhi, capirebbe.

Perturbazioni

Di lei mi piace che entra in punta di piedi, senza far rumore.
Che, prima di toccarmi, chiede il permesso con gli occhi.
Mi piace perchè sa dosare tenerezza e carattere.
E perchè sa rimettermi al mio posto quando, puntualmente, smarrisco la strada.
L’ho conosciuta un pomeriggio di ottobre, sotto la prima pioggia autunnale.
Non parlava molto, impegnata com’era a ritrovare sè stessa.
Ed io riempivo silenzi.
A quei tempi, mi ero in qualche modo convinta che avrei potuto vivere soltanto relazioni occasionali, prive di implicazioni emotive.
Impegnarsi, anche semplicemente a conoscere qualcuno, è faticoso.
Ma con lei non potevo giocare. Respirava appena. Tentava faticosamente di rimanere a galla. Leggevo nei suoi occhi l’umiliazione del tradimento.
Quelle come lei, da quelle come me, dovevano passeggiare ad anni luce di distanza.
Presa com’ero dal restituire al mondo le pene che mi portavo dentro.
Avrei inghiottito anche lei in quel vuoto senza fondo.
Nei successivi tre mesi non l’ho più vista. Fino a quando il caso, o chiamiamolo come vogliamo, l’ha posizionata lì, nuovamente sul mio cammino. Un paio di incontri non troppo programmati, tante risate, i suoi occhi verdi.
Quando ho capito che si stava affezionando, ho sentito nuovamente l’impulso di fuggire. Perchè, se avesse visto com’ero realmente, ciò che ero diventata, probabilmente sarebbe andata via.
E poi c’era la sua età ad ossessionarmi. Non ha ancora compiuto 21 anni e talvolta mi sento una pedofila, alle porte della trentina.
Ho provato ad avvertirla, ad allontanarla, a proteggerla, ma niente. Rimane.
Ed è talmente risoluta che, talvolta, fa sentire me una bambina.
Un giorno, per un momento, solo per un momento, ho spento la testa.
La mia vita non era più un film da guardare attraverso un vetro, c’ero dentro.
Non era più un susseguirsi di domande e preoccupazioni, alle quali tentavo affannosamente di trovare risposta.
L’ho baciata. Un freddo giovedì di febbraio. Lei era lì, a due passi da me, bellissima, che rideva come solo lei sa fare. E mi sono abbandonata solo all’istinto, non badando alle conseguenze.
Da allora sono trascorse due settimane. Non so esattamente come definire il nostro rapporto. So soltanto che sto bene. Senza domande, senza pretese, senza drammi.
Mi vede. E’ diversa da me ma non tenta di cambiarmi. E’ così spontanea che colleziona gaffe continuamente. Le mie amiche l’adorano. Ed io sono talmente stupida da provare ancora il terrore di abbandonarmi a qualcuno.
Le ho permesso di entrare nel mio letto.
L’ultima persona che lo fece mi ha annientato.
Credevo che avrei ripensato a lei in un contesto analogo.
E invece l’unica cosa che avevo in mente era che non volevo arrivasse mattina perchè sarebbe andata via.
Non so. Forse il contrario del vuoto non è amare qualcuno fino a ritrovarti sulla tazza del water a vomitare. Ho provato nuovamente calore. Non troppo vicino da ustionarmi ma abbastanza da essere confortevole.

Pretenziosi di attenzioni e distanti da apprensioni

A volte, la notte, chiudo gli occhi e perdo l’equilibrio.

Il freddo punge gli angoli più remoti della pelle, i fari delle auto disegnano sul soffitto figure evanescenti, la mente viene investita da immagini che hanno il profumo della pioggia. Alcuni ricordi si aggrappano nella memoria con violenza. Ci condizionano, ci fanno paura, chiudendo le porte ad ogni remota speranza di poter assaporare la felicità. Ancora una volta. L’ultima. Ricordi che sanno di malato, fumo e melanconia.

Quando ti abitui a guardare e muoverti nel buio, gli occhi si spengono, il nero lo indossi.

Può una vittima diventare carnefice?

“Non innamorarti mai di me”

Ripeto questa frase tra me e me da una settimana.

Tempo fa ho conosciuto una ragazza, talmente dolce, seria, carina e innocente che mi pare impossibile possa trovare interessante una come me, così distante dal suo modo di essere. Qualcuno la definirebbe “normale”, ma non sono una fan di questo termine. Forse lo sarò se un giorno sapranno offrirne un valido significato. Le ho permesso di affacciarsi a guardare i macigni che mi porto al seguito. Ma più si ostina a volerli slegare, più li tengo stretti. Trascorro il tempo ad avvertirla di stare attenta, che potrei schiacciarla, inghiottirla nel vuoto. E lei rimane lì, a “vedere come va”. A dirmi che mi è grata per la mia sincerità, mentre nessuna lo è mai stata con lei. Così giovane eppure torchiata dal tradimento, dalla curiosità di una etero annoiata, dai fugaci desideri di femmine in cerca del brivido di una sera. Mi verrebbe di proteggerla, soprattutto da me.

Non ti da fastidio il piercing?” Lo sfiorava, quasi timorosa di farmi male.

A volte sì.”

 

Silenzio. Ed ecco che le sue dita si spostano sulle labbra.

Non mi baciare, non mi baciare, non mi baciare.

Se mi entrassi dentro, impazziresti.

Ristrutturazioni: Insight

Cinque mesi fa decidevo di dire addio a questo blog.

Non l’ho cancellato, pensando fosse una testimonianza importante di un periodo particolarmente delicato della mia vita. L’idea era abbandonarlo in questo minuscolo angolo del cyberspazio, a fluttuare in silenzio. Come fanno i ricordi nella memoria a lungo termine. Nascosti nel buio, archiviati con cura.

Tanto ero convinta della mia scelta che decisi di lasciarlo in eredità a Lei, la protagonista di ogni centimetro occupato qui dentro. Volevo che potesse vedere con i suoi occhi di cosa fosse stata capace. Quanto fosse stata una fottuta stronza narcisista bipolare. Non importa l’epilogo delle storie, l’unica cosa che conta è avere una parte nel copione.

Ho trasformato, erroneamente, il blog in qualcosa di suo. E, quando l’ho lasciata andare, era ovvio pensare che anch’esso dovesse scivolare via. Spegnere la luce e riaprire il sipario altrove. Fuggire, ancora una volta. Come quella mattina di Maggio, quando andai via dalla mia città solo per dimenticare, per non rivederla più. Come fanno i codardi che provano vergogna.

Ci pensate se fosse possibile fare lo stesso con la vita.

Resettare tutto, scegliere un altro spazio e ricominciare dal nulla. Solo pagine nude da riempire. Con la possibilità di cancellare ogni qualvolta le cose vadano storte. Sarebbe spaventosamente facile.

Io, questo blog, l’ho aperto per me. E lo scopro solo adesso.

Per testimoniare ogni vissuto, custodire ogni emozione provata, i ricordi. Anche i più distruttivi e malsani. Al di là di quella finestra si dissolve qualunque forma di calore. C’è talmente tanta anoressia di sentimenti, di legami, che ho paura di confondermi in quella massa informe di marionette invase dalla frenesia, dalle tentazioni vacue, dalle flebili certezze; che trasformano gli affetti in merci da accartocciare, gettare e rimpiazzare. Le mode odierne ci impongono di sostituire il vecchio col nuovo, la qualità con la quantità, il valore con il prezzo, promuovendo il modello di vita del “qui ed ora”. E tutti sembrano dimenticare il passato, ridicolizzare il sentire, vergognarsi delle debolezze emotive.

Non ci voglio stare a questo gioco.

Io qui dentro voglio urlare, liberarmi da qualunque vincolo, rileggermi e star male, ancora e ancora, nel tentativo di non perdere, e recuperare, di volta in volta, la mia (dis-)umanità.

L’anno appena salutato è stato troppo importante per poterlo cancellare con un click.

Ho fatto l’amore per la prima volta, ho viaggiato, mi sono persa, ho lavorato ad eventi nazionali, ho accettato la mia sessualità, ho avuto un trauma cranico, ho temuto di morire, ho fatto il bagno mezza nuda nel gelido mar Tirreno, mi sono ubriacata fino a vedere i folletti, ho flirtato con un’esemplare di quella popolare razza chiamata eteroconfuseforsebisessualinonsosemipiacelapatata della quale tutti parlano ma che non avevo mai visto dal vivo, sono dimagrita, ho cambiato colore di capelli, sono diventata sicura di me, è nato un bel rapporto di amicizia con una ex che avevo ferito a morte, e soprattutto ho scoperto che il destino, o qualunque cosa sia, a volte è un amorevole bastardo.

Perché, proprio quando la mia vita sembrava scritta, organizzata, imbustata e spedita, arrivano i risultati di quel test, fatto quasi per caso, senza aver aperto libro. Neanche nei miei sogni più reconditi avrei potuto immaginare di superarlo. E così, a quanto pare, per il momento, ogni cambiamento di rotta sembra congelato a data da destinarsi, lasciandomi indisturbata a vivere il mio piccolo sogno.

Potevo riassumere tutto dicendo che sono cresciuta, che mi sento addosso due gran paia di palle di acciaio e che tutto questo è stato possibile anche grazie a quel passato racchiuso qui, che volevo cancellare, che mi ha distrutto e dato la possibilità di reinventarmi, e che, porca troia, me lo tengo stretto perché mi piace rileggermi e ciò che sono adesso. Ma, come tutti sanno, amo adornare. E adesso è così facile dire “sono qui”. Come se fossi tornata da un lungo viaggio, scesa dalla folle corsa di un treno mai partito davvero.

Passeggiando su una traccia mnestica

Quattro mesi fa scrivevo di Lei. Dovevo liberarmene attraverso le parole. Farla uscire, intrappolarla tra queste righe. Ed essere libera, respirare.
Puntualmente, aprivo questa pagina, dita ferree sulla tastiera, ad un passo dal vomitare tutto, e poi…
E poi rimanevo immobile. Forse perché, per me, lei era un’esule. Una fregata dalla vita. Una di quelle che lottano da sole contro una testa caotica, irrazionale e incoerente.
Non so cosa le sia stato seminato dentro, quando, da chi, per spingerla tanto alla deriva. Ho familiarizzato con il freddo delle sue mani, arrendendomi all’idea che anch’esso facesse parte di lei. Aveva paura del buio. Voleva abbracci, ma non li chiedeva. Non poteva lasciarsi vedere fragile, l’avrebbero annientata. Tutti. Il suo errore è stato credere che anch’io volessi distruggerla, accusandomi di azioni talmente vili che avrebbe meritato pugni al solo pensarle. Da lì, è iniziata la nostra guerra.
Una guerra che, nel punto più estremo, mi ha portato lontano dalla mia terra, dagli angoli di strada che mi hanno visto crescere per quasi un decennio. La Toscana era il punto di partenza per ritrovarmi. Mi piaceva viaggiare sola, in quel periodo, all’affannosa ricerca di me stessa. Di qualunque dettaglio potesse riaccendere i miei occhi ormai spenti. Mi sfidavo a perdermi tra città sconosciute, alla ricerca di un barlume di adrenalina. Volevo non ritrovare la via per tornare a casa, lasciarmi invadere da una fottuta paura, sentirmi disperata, smarrita, consapevole che nessuna mano avrebbe potuto tirarmi fuori dai guai. Invece ero calma, indifferente, autocontrollo invidiabile. Lei mi aveva svuotato così tanto che non riuscivo più a provare nessuna emozione.
Questa è stata la mia vita per due mesi, fino a quel giorno di fine giugno. L’ho fatto di nuovo, un biglietto di sola andata. Stavolta per tornare a casa, con la promessa di ripartire non appena rimesso tutto al proprio posto. Senza patetiche fughe e drammi. A quei tempi non sapevo ancora cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Tornare e scoprire di cosa fosse stata capace è indescrivibile. Solo l’odio può giustificare tanta crudeltà. Puro e semplice odio. Mi ha diffamato, fatto cacciare dalla mia casa, odiare dalle coinquiline, diffuso menzogne sul mio conto, sostituito con un’altra come se avesse semplicemente cambiato mutande.
Tutto questo, avrebbe dovuto farmi impazzire. Sviluppare una qualche forma di nevrosi. Anzi, avrei voluto che accadesse, lasciarmi sbattere tra le onde. Anche in questo caso, però, non mi sono scomposta. Continuavo a non provare nulla. E non perché la perdita e il tradimento non avessero un peso. Ma… è come se tutto il mio essere fosse stato messo in ostaggio in un altro tempo e spazio. Ed io non avessi i mezzi per ritrovarmi. Le lacrime hanno inaridito i tratti del mio viso. Sono diventata sorda alle necessità altrui. Mi tocca ricominciare da zero. Crearmi una nuova identità.
Adesso non so esattamente chi sia. Mi guardo indietro e non mi riconosco. Faccio tentativi disumani di vedermi attraverso gli occhi degli altri, ma la visione è offuscata. Nemmeno loro mi riconoscono, la mia famiglia, le amiche di sempre. Lì a sottolineare quanto sia diversa, quanto sia cinica e fredda. Come se non lo sapessi. Come se questa consapevolezza non fosse già una condanna.
Un pomeriggio di luglio, vidi una ragazza. Probabilmente si trattava soltanto di una banale attrazione fisica, null’altro. Lei era lì, a pochi passi da me. Un tempo, avrei saputo approcciarmi, anche a costo di dar vita a conversazioni ridicole. Mi piaceva parlare con la gente. Stavolta, però, sono rimasta immobile. Ad osservarla distrattamente mentre fumava una sigaretta. Mi sono sentita non all’altezza. Perché la mia autostima, insieme a tutto il resto, mi è stata portata via. Lei, che aveva una stima di sé sotto le scarpe, ha rubato la mia. Me l’ha succhiata via, lentamente, senza che me ne rendessi conto. E adesso, mi ritrovo a tremare al solo pensiero di sfiorare un’altra. Se la mia pelle avesse un contatto, crollerei. E, se crollassi tra le braccia sbagliate, stavolta sarebbe la fine. Non possono toccarmi l’anima con le mani sporche. Si sopravvive una sola volta.

Ma io, in fondo, non la odio.
Se avesse saputo dirmi di essere un giocattolo difettoso, non sarei stata talmente vile da tornare in negozio a restituirlo. Non avrei nemmeno potuto ripararlo. Semmai l’avrei aiutata a ricomporre i pezzi. A mettere a tacere quel caos che le violentava la testa.
Adesso non posso più aiutarla. E non voglio. Troppa rabbia, troppo dolore gratuito.
E la pioggia.
Non è quella pioggia che accarezza i gelidi pomeriggi invernali. Ora è fitta, torbida, non mi permette di mettere a fuoco. I suoi lineamenti si stanno trasformando in pallidi contorni.
Se ora potessi parlarle, le direi di ritrovarsi. Di non cercare tiepidi piaceri momentanei, effimeri, squallidi, tra lenzuola che odorano di ignoto e candeggina industriale. Di non incepparsi tra il troppo e il nulla, perdendo il controllo. Di non distruggere gli altri per sentire di esistere. Ma soprattutto, di smetterla di odiarmi. Me ne sono andata. Senza toglierle nulla, come ha fatto lei. Ciò che mi ha fatto passare è disumano. Eppure, una parte di me crede che, in fondo, non volesse farmi del male. Semplicemente non poteva farne a meno, schiava della sua ambivalenza.